BRUCE CHATWIN, ANATOMIA DELL' IRREQUIETEZZA

Chatwin era nato nel 1941 a Sheffield, nello Yorkshire. Frequentò il Marlborough College, nello Wiltshire. Nel 1958 iniziò a lavorare per la prestigiosa casa d'aste londinese Sotheby’s . Grazie alla sua sensibilità in materia di percezione visiva, divenne presto l'esperto impressionista di Sotheby's. All'età di 26 anni abbandonò il lavoro per paura di perdere la vista a causa di tanta arte. Un oculista lo rassicurò che non c'era niente che non andasse nella sua vista, ma gli consigliò di smettere di osservare i quadri così da vicino e gli suggerì di rivolgere piuttosto lo sguardo verso “l'orizzonte”. Chatwin cominciò quindi ad interessarsi di archeologia e si iscrisse all'Università di Edimburgo, che frequentò per diversi anni, pagando le rette e mantenendosi con la compravendita di dipinti. Lavorò in Medio Oriente (Afghanistan) e in Africa, dove sviluppò un forte interesse per i nomadi ed per loro distacco dai beni personali. Nel 1973, Chatwin fu assunto dal “Sunday Times Magazine” come consulente di arte e architettura. Il suo rapporto di lavoro con la rivista contribuì a sviluppare il suo talento narrativo e gli permise di compiere numerosi viaggi, dandogli la possibilità di scrivere degli immigranti algerini e della Grande Muraglia cinese, di intervistare personaggi come André Malraux in Francia e Nadezhda Mandel'shtam, nell'Unione Sovietica. Chatwin intervistò l'architetto novantatreenne Eileen Gray nel suo studio di Parigi e fu lì che ebbe modo di notare una mappa della Patagonia che lei aveva dipinto. "Ho sempre desiderato andarci" le disse Bruce. "Anche io" lei rispose. "Ci vada, al posto mio". Lui partì quasi immediatamente per il Sud America e, appena arrivato a destinazione, ne diede l'annuncio, insieme alle proprie dimissioni, al giornale, con un telegramma: "Sono andato in Patagonia." Passò sei mesi in Patagonia ed il risultato di questa esperienza fu il libro "In Patagonia" (1977), che consacrò la sua fama di scrittore di viaggi. Verso la fine degli anni '80, Chatwin si ammalò di AIDS. Tenne nascosta la sua malattia, facendo credere che i sintomi fossero dovuti ad un un'infezione provocata da un fungo della pelle o dal morso di un pipistrello cinese. Non rispose positivamente alla terapia con l'AZT, così lui e la moglie andarono a vivere nel sud della Francia, dove trascorse gli ultimi mesi della sua vita, su una sedia a rotelle. Morì a Nizza nel 1989, all' età di 48 anni. Le opere più recenti comprendono uno studio sulla tratta degli schiavi, "Il Vicerè di Ouidah", per il quale si recò a Ouidah, una località del Benin famosa per essere stata un centro di raccolta degli schiavi in Africa e poi a Bahia, in Brasile, dove gli schiavi venivano venduti. Per quanto riguarda "Le vie dei canti", Chatwin andò in Australia per lavorare sulla tesi secondo la quale i canti degli Aborigeni sarebbero un incrocio tra una leggenda sulla creazione, un atlante e la storia personale di un aborigeno in particolare. In "Cosa sto facendo qui?", (1989), scrisse di un amico, al quale era stato legato per oltre vent’anni, Howard Hodgkin. "Utz", il suo ultimo libro, è un racconto di fantasia, sull' ossessione che porta gli uomini a collezionare oggetti. Chi volesse conoscere meglio Bruce Chatwin nelle traduzioni italiane può leggere:

• “In Patagonia”, 1977
• “Il Vicerè di Ouidah” (The Viceroy of Ouidah), 1980
• “Sulla collina nera” (On The Black Hill), 1982
• “Le vie dei canti” (The Songlines), 1987
• “Utz”, 1988
• “Che ci faccio qui?”(What Am I Doing Here), 1989
• “Ritorno in Patagonia”, 1991
• “Photographs and Notebooks”, 1993
• “Anatomia dell'irrequietezza” (Anatomy of Restlessness), 1997
• “Winding Paths”, 1998

Bruce Chatwin, nelle prime righe del testo “Anatomia dell'Irrequietezza”, spiega il forte fascino che la vita dei nomadi esercita su di lui. In questo libro parla appunto di una "Alternativa Nomade"; per Chatwin, il nomade è un uomo di fede, che medita in solitudine, che conosce l'importanza della musica, che ama la danza e i colori vivaci, l'arte nomade è intuitiva e irrazionale, anziché analitica e statica. L'uomo che se ne sta quieto in una stanza chiusa rischia d'impazzire, di essere tormentato da allucinazioni e introspezione. Monotonia e regolarità di impegni tessono una trama che produce fatica, disturbi nervosi, apatia, disgusto di sé e reazioni violente. Chi non viaggia non conosce il valore degli uomini, il viaggio allarga la mente e le dà forma, l'evoluzione ci ha voluto viaggiatori. Per Chatwin i pochi "popoli primitivi" sopravvissuti alla conquista delle "civiltà" sedentarie comprendono meglio di quest'ultime la semplice realtà della natura umana. Il moto è la migliore cura per la malinconia; la gente, quando si ostacolano i suoi movimenti, aderisce a rivoluzioni, al dio liberatore del nostro tempo, mentre i nomadi non guardano né a destra né a sinistra, i loro occhi sono incollati alla via che va oltre l'orizzonte.Tutte le civiltà "stanziali" sono, per loro stessa natura, orientate verso le cose, o come direbbe Giovanni Verga verso "la roba"; le cose hanno un loro modo di insinuarsi in ogni vita umana. Per Chatwin infine uno dei principali mali contemporanei è "l'horreur du domicile". “Anatomia dell'Irrequietezza” ci spiega già la nascita di “The Songlines”, un libro nomade, che per Chatwin sembra essere stata la ricerca di tutta una vita. Il testo si apre con l'incontro tra Bruce e Arkady Volchok, un cittadino australiano, di origine russa, il cui mestiere era quello di tradurre la legge tribale nel linguaggio della legge della corona, facendo da intermediario tra il Governo australiano e i proprietari Aborigeni delle terre. Quale miglior guida per Chatwin, deciso a cercare “Le Vie Dei Canti”, se non l'uomo che aveva il compito di identificare i proprietari tradizionali della terra, portandoli in giro, per i loro antichi terreni e rilevando quale roccia o pozzo fosse opera di un eroe del Tempo del Sogno? E' attraverso questa guida che Chatwin si addentra nell'affascinante filosofia degli Aborigeni e, per bocca dell'aborigeno Dan Flynn, mostra l'universo spirituale aborigeno. Il romanzo di Chatwin risulta affascinante, come affascinante può apparire la sua alternativa nomade. Questo scrittore ha sicuramente il merito di aver trasportato in un best seller europeo il fascino di un popolo sconosciuto a molti. Chatwin ebbe persino il fiuto di interpretare la futura fortuna che un modo di vivere così affascinante avrebbe avuto nella vecchia e sedentaria Europa con l’entrata delle tele degli artisti aborigeni nel circuito delle gallerie d'arte dei paesi occidentali. In tutto il testo si respira un'aria di grande rispetto nei confronti del popolo incontrato, nonostante la grande diffidenza da parte degli Aborigeni per il bianco, anglosassone, scrittore. Chatwin incarna il simbolo del moderno viaggiatore occidentale, ma, nella sua riscoperta della cultura aborigena, lo scrittore viaggia portando con sé tutte le barriere culturali del mondo da cui egli stesso proviene; tuttavia la descrizione di un popolo straniero mette in gioco la visione che l'autore ha della propria cultura e la maniera in cui egli vi si colloca, ossia la sua identità culturale. Il Nomadismo diventa un fenomeno che Chatwin propone come alternativa allo stile di vita stanziale. In quanto tale, dunque, la condizione nomade non verrà più necessariamente connotata in maniera negativa, essa diventerà una scelta di vita. In questa particolare visione del viaggio e in questa interpretazione in chiave positiva del nomadismo, la stanzialità non sarà più solo il simbolo della morte, ma arriverà a rappresentare la morte dello spirito. Senza rinnovare il proprio contatto con la terra, l'uomo non potrà che morire dentro. Ecco perché l'irrequietezza viene meglio spiegata, secondo Chatwin, da coloro che sono costretti in qualche modo all'immobilità. Il viaggio è fuga dalla realtà, e stavolta, più precisamente, davvero fuga dall'inquietudine del vivere. Da questo punto di vista il nomadismo assume un valore simbolico che non si limita al significato religioso o alla ricerca di certe verità che non sono rintracciabili nelle società stanziali: diventa un momento di crescita interiore, di esperienza e di maturazione. La spiegazione del nomadismo in questi termini, soprattutto nell'ultimo caso, quello cioè del viaggio come ricerca, implica un'ulteriore attribuzione di tematiche occidentali al mondo dell'altro. Lo stile di vita povero delle società nomadi fornisce, a chi proviene da una ricca società stanziale, l'illusione di un ritorno ad uno stile di vita, se non "primitivo", quantomeno "naturale". Chatwin ha comunque il merito di essersi avvicinato all’”altro”, di averlo conosciuto, e di aver spinto numerosi lettori del mondo occidentale a confrontarsi con il mondo del deserto. Appoggiamo vivamente il pensiero di Chatwin e vi invitiamo a leggere, in particolare, l”Alternativa Nomade”ne rimarrete soddisfatti.

INVITO ALLA LETTURA

“Era la Terra che dava la vita all'uomo; gli dava il nutrimento, il linguaggio e l'intelligenza, e quando moriva se lo riprendeva […] Ferire la Terra è ferire te stesso, e se altri feriscono la Terra, feriscono te. Il paese deve rimanere intatto, com'era al tempo del Sogno, quando gli Antenati col loro canto crearono il mondo". "Un dedalo di sentieri invisibili ricopre l'Australia, che gli Europei chiamano "Vie dei canti" e gli Aborigeni: "Orme degli antenati", ogni antenato, nel suo viaggio per tutto il paese, ha sparso sulle proprie orme una scia di parole e note musicali, rimaste come punti di comunicazione fra le tribù più lontane[…] L'uomo che andava in walkabout compiva un viaggio rituale, calcava le orme del suo antenato senza cambiare una parola né una nota, e così ricreava il creato[…] di notte, mentre vegliavo sotto le stelle, le città dell'occidente mi sembravano tristi e aliene, e le pretese del "mondo dell'arte", assolutamente idiote[…] Gli Aborigeni credono che una terra non cantata sia una terra morta; se i canti vengono dimenticati, infatti, la terra ne morirà. Permettere che questo accada è il peggiore di tutti i delitti possibili […] Prima dell'arrivo dei bianchi, in Australia nessuno era senza terra, poiché tutti, uomini e donne, ereditavano in proprietà esclusiva un pezzo del canto dell'Antenato e la striscia di terra su cui esso passava […] Una tappa era il luogo delle consegne, dove il canto cessava di essere di tua proprietà e passava ad un altro[…] Si credeva che ogni antenato, mentre percorreva il paese cantando, avesse lasciato sulle proprie orme una scia di "cellule di vita" […] il primo calcio del bambino corrisponde al momento del concepimento da parte dello spirito. Allora la futura madre contrassegna il luogo e va di corsa a cercare gli anziani, i quali interpretano la configurazione del terreno e stabiliscono quale antenato percorse quella via, e quali strofe saranno proprietà privata del bambino […]".